ANCORA UNA “LITURGIA DIMENTICATA” IL RITO ITALO-BIZANTINO

codice-bizantino
Codice Rito
Italo-Bizantino
     XI secolo
A cura di Stefano Parenti

Per la sua monografia sulle anafore gallicane Matthieu Smyth ha scelto un titolo significativo: La liturgie oubliée, ovvero, La liturgia dimenticata[1], anche se in realtà oggi quella gallicana più che dimenticata è una liturgia morta. Già negli anni ‘20 del secolo scorso il celebre storico e filologo Anton Baumstark († 1948), padre della Liturgie comparée[2], faceva notare ai suoi lettori le affinità esistenti tra lingue e liturgie. Come le lingue, le liturgie crescono, si sviluppano, si influenzano, ma anche si escludono a vicenda e, come alcune lingue, anche le liturgie muoiono[3]. Così rispetto al passato oggi disponiamo di un numero più ridotto di lingue, dialetti, parlate ed anche di liturgie. A farne le spese in una dialettica che richiama da vicino l’aforisma del “pesce grande che mangia il pesce piccolo” non sono state soltanto le tradizioni strettamente locali come, per esempio, il rito beneventano in Occidente, ma anche tradizioni tra le più venerabili d’Oriente, come il rito cattedrale di Gerusalemme, descritto verso il 380 dalla pellegrina Egeria e soppresso definitivamente nel corso del XIII secolo a favore del rito bizantino[4].

 

A conclusione del processo di semplificazione e unificazione delle tradizioni liturgiche sul quale ha influito il Concilio di Trento e, in modo indiretto, anche il Vaticano II[5], oggi nella Chiesa cattolica sono in vigore tre riti occidentali: romano, ambrosiano, mozarabico, e sette orientali: armeno, bizantino, copto, etiopico, siro-occidentale, siro-orientale, maronita. Per il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali [Cattoliche] le tradizioni di base sono invece cinque: alessandrina, antiochena, armena, caldea e costantinopolitana[6], classificazione ripresa nell’Annuario Pontificio[7] ed ulteriormente specificata nella serie di riti stabiliti in prevalenza su base etnica:[8] così per il rito bizantino abbiamo un rito albanese, un rito bulgaro, un rito melkita, ecc. Nel “Prospetto della Gerarchia delle Chiese Orientali Cattoliche” è riportato invece l’elenco delle Chiese che fanno riferimento alla medesima tradizione. Per la tradizione bizantina si elencano 14 Chiese: Chiesa Albanese, Bielorussa, Bulgara, Greca, ecc[9].

Da questi pochi cenni si intuisce che il termine rito non è circoscritto alle celebrazioni liturgiche propriamente dette o ad un particolare modo di eseguirle, ma interessa anche il diritto e, in ambito teologico, l’ecclesiologia.

 

1. Rito: le possibili valenze del termine

 

Secondo il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (can. 28 § 1) entrato in vigore nel 1988

 

Il rito è il patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, distinto per cultura e circostanze storiche di popoli, che si esprime in un modo di vivere la fede che è proprio di ciascuna Chiesa sui iuris[10].

 

La novità del canone è data: 1) dalla prospettiva ecclesiologica che pone al centro la singola Chiesa di diritto proprio (sui iuris) per la quale il rito liturgico è una parte del patrimonio; 2) il rito risulta inseparabile dalla teologia, dalla spiritualità e dal diritto e fa parte di un sistema di pensiero coordinato e coerente. Qui emerge la profonda differenza che esiste tra riti occidentali non romani e riti orientali: i riti occidentali caratterizzano liturgicamente alcune Chiese particolari, anche di estensione geograficamente ragguardevole, come la Chiesa ambrosiana, depositarie di un patrimonio spirituale (santità ambrosiana e monachesimo) e teologico proprio, ma non da un patrimonio disciplinare e giuridico, restando soggette al Codice di Diritto Canonico latino. Così si spiega perché un emigrato che dimora a Milano diviene a tutti gli effetti “di rito ambrosiano” senza alcun intervento dell’Autorità superiore, mentre per il passaggio dalla Chiesa latina ad una delle Chiese orientali (o da una Chiesa orientale ad un’altra) è necessaria una specifica autorizzazione rilasciata dalla Santa Sede tramite la Congregazione per le Chiese Orientali[11].

La definizione di rito offerta dal Codice dei Canoni delle Chiese Orientali rappresenta il punto di arrivo ed il felice traguardo di un percorso lungo e faticoso iniziato nella Chiesa cattolica immediatamente dopo il Concilio di Trento. L’applicazione delle normative conciliari riguardanti i vescovi ed i loro doveri pastorali (visite, sinodi ecc.) svelò alla Curia romana l’esistenza in Italia meridionale di numerose comunità ortodosse di tradizione liturgica bizantina dipendenti canonicamente dal patriarcato di Costantinopoli[12]. Erano profughi provenienti dall’Albania meridionale e poi dalla Grecia giunti sulle coste italiane in ondate successive a partire dalla seconda metà del XV fino a tutto il XVI secolo ed oltre. Dal 1536 al 1580 la diaspora, clero e popolo, era posta sotto la giurisdizione della Chiesa autocefala di Ochrid, che aveva designato un esarca generale per l’Italia nella persona dell’arcivescovo Prochoros[13]. Dopo la che la Sublime Porta ridusse nel 1566 l’importanza ecclesiastica della città macedone, il patriarcato di Costantinopoli decide di riassumere personalmente la responsabilità dei fedeli e dell’organizzazione ecclesiastica ortodossa in Italia[14].

Nel 1564 con il Breve Romanus Pontifex papa Pio IV interdiva in futuro l’esercizio di ogni ministero episcopale da parte della Chiesa ortodossa, considerava le comunità di emigrati come cattolici de facto e in qualità di fedeli di rito bizantino o, come si diceva allora “di rito greco”, li sottoponeva alla giurisdizione ordinaria del vescovo, naturalmente di rito romano, competente per territorio[15]. Pur conservando la propria tradizione liturgica e alcune consuetudini canoniche, come la possibilità per gli uomini sposati di accedere al diaconato e al presbiterato, quella che era una Chiesa con un proprio episcopato diviene un “rito” all’interno della Chiesa d’Occidente come i riti occidentali non romani[16]. Questa terminologia, consolidata durante l’epopea unionista promossa da papa Leone XIII, è rimasta in vigore fino al Vaticano II che nel decreto Orientalium Ecclesiarum sulle Chiese Orientali cattoliche ancora impiegava il termine rito in senso ecclesiologico:

 

La Chiesa santa e cattolica, che è il corpo mistico di Cristo, si compone di fedeli, che sono organicamente uniti nello Spirito Santo dalla stessa fede, dagli stessi sacramenti e dallo stesso governo e che unendosi in vari gruppi, congiunti dalla gerarchia, costituiscono le Chiese particolari o riti[17].

 

Le precisazioni apportate dal Codice dei Canoni delle Chiese Orientali fanno comprendere meglio del Decreto conciliare come ogni rito liturgico supponga un radicamento spirituale e disciplinare all’interno di una tradizione partecipata e condivisa che si distingue, secondo l’espressione di Edmund Bishop, per un particolare “genio” o spirito[18].

 

2. Il rito come problema liturgico ed ecumenico

 

La vicenda dei Greci ed Albanesi immigrati in Italia rivela ulteriori implicazioni ecclesiologiche ed ecumeniche legate alla presenza nella moderna e contemporanea Chiesa cattolica di Chiese orientali originate da un movimento di unione con Roma sorto nelle stesse Chiese ortodosse bizantine nella seconda metà del XVI secolo[19]. E’ il fenomeno che convenzionalmente è conosciuto sotto il nome di “uniatismo”, un termine che le Chiese interessate in genere rigettano come dispregiativo e comunque non appropriato[20].

Nei protocolli delle unioni di Brest (1595/6), Uzhorod (1646), Alba Iulia (1698), con il patriarcato di Antiochia (1724) o con altri gruppi in Europa centro-orientale, una delle condizioni poste dai neo-convertiti era proprio il rispetto e la conservazione da parte della Chiesa romana delle tradizioni liturgiche loro proprie che, un primo momento si mantennero identiche a quelle delle Chiese ortodosse di origine. Con il tempo però, in seguito dell’opera di religiosi occidentali o per espressa volontà delle stesse Chiese, nel patrimonio liturgico sono entrati (o si sono infiltrati) molti elementi allogeni – tuttora in uso – ispirati o ripresi dalla Liturgia romana del tempo, anche con l’intento di differenziarsi dalla Chiese ortodosse[21]. In questo modo si sono venuti a creare altrettanti “rami cadetti” cattolici in corrispondenza delle tradizioni bizantine storiche.

A ciò si aggiunga che con la Costituzione Apostolica Etsi Pastoralis, pubblicata da Benedetto XIV il 26 maggio 1742[22], al rito romano, per essere la tradizione propria della Chiesa di Roma e del suo Vescovo, veniva attribuita in Italia la supremazia (praestantia) rispetto a tutti gli altri riti, una teoria accantonata in forma chiara e definitiva soltanto con la Costituzione liturgica del Concilio Vaticano II (Sacrosanctum Concilium 4) che recita:

 

… il sacro Concilio, obbedendo fedelmente alla tradizione, dichiara che la santa madre Chiesa considera come uguali in diritto e in dignità tutti i riti legittimamente riconosciuti …

 

Lo stesso Concilio, nel Decreto Orientalium Ecclesiarum ha fatto obbligo agli orientali cattolici di ripristinare le proprie autentiche tradizioni:

 

Tutti gli orientali sappiano con tutta certezza che possono sempre e devono conservare i loro legittimi riti e la loro disciplina, e che non si devono introdurre mutazioni, se non per ragione del proprio organico progresso. Pertanto, tutte queste cose devono essere con somma fedeltà osservate dagli stessi orientali, i quali devono acquistarne una conoscenza sempre più profonda e una pratica più perfetta; qualora, per circostanze di tempo o di persone, fossero indebitamente venuti meno ad esse, procurino di ritornare alle avite tradizioni[23].

 

Credo di restare nell’ambito di una valutazione oggettiva affermando che nella maggior parte dei casi l’invito conciliare è caduto nel vuoto. Una apposita Istruzione della Congregazione per le Chiese Orientali, pubblicata nel 1996, che lodevolmente si prefigge di indicare un cammino di recupero pieno della propria identità liturgica, permette di valutare, secondo i casi, l’ampiezza del fenomeno di latinizzazione, ma anche semplicemente di distorsione che resta oggi la caratteristica più evidente dei riti liturgici delle Chiese orientali cattoliche[24].

 

3. Il rito italo-bizantino: alle origini di una presenza

 

L’esistenza fino ai nostri giorni di un rito italo-bizantino, attualmente celebrato soltanto nel Monastero di Grottaferrata (Roma), ha origine nella giurisdizione esercitata dal Patriarcato di Costantinopoli su alcune regioni del Meridione d’Italia dall’VIII all’XI secolo. Infatti attorno al 732-733 un editto dell’imperatore Leone III Isaurico le sottrae, insieme all’Illirico, alla giurisdizione metropolitana del Vescovo di Roma[25].

In quelle regioni, come del resto anche a Roma, già nel corso del VII secolo era confluita una élite intellettuale di chierici e monaci orientali che nel secolo VII fuggiva i Persiani, gli Arabi e il monotelismo, e poi nei secoli VIII e IX l’iconoclasmo[26]. I profughi preferirono l’Italia a Costantinopoli perché proprio nel VII secolo l’impero bizantino attraversava una grave crisi economica dovuta alla perdita dell’Egitto da dove venivano i suoi rifornimenti di grano[27]. Il costante aumento della popolazione ellenofona, favorita dall’amministrazione bizantina, offrì un pretesto per l’annessione ecclesiastica, dando inizio nella seconda metà dell’VIII secolo alla bizantinizzazione religiosa con la sostituzione dell’episcopato latino con quello greco. Nasce così quella che spesso viene indicata come la “Chiesa greca” in Italia o, per essere più precisi, la provincia italiana del Patriarcato di Costantinopoli, la cui liturgia però non era esattamente identica a quella della Capitale bizantina.

Gli emigrati dal Medio Oriente ai quali si è fatto cenno, erano di lingua greca e di fede calcedonese e portarono in Italia i loro libri liturgici secondo i riti allora in vigore nei patriarcati di origine, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. La fase antica del rito italo-bizantino (VIII-XI secolo) è una sintesi di elementi tratti da questi libri con il rito costantinopolitano, come testimonia il codice Barberini gr. 336 della Biblioteca Apostolica Vaticana, copiato in Calabria settentrionale per una chiesa episcopale (Rossano?) verso la fine dell’VIII secolo[28]. Per la liturgia monastica una situazione analoga è confermata da un Salterio con Libro d’Ore, esemplato nel IX secolo conservato nella Biblioteca Nazionale di Torino[29].

L’occupazione dell’Italia meridionale da parte dei Normanni resa definitiva con la presa di Bari nel 1070, offrì l’occasione alla Chiesa di Roma di reclamare la restituzione delle sedi vescovili usurpate nel 732-733 che venne attuata senza fretta in attesa del momento propizio[30]. Nel 1079, venuto a mancare il metropolita (Stefano?) di Reggio Calabria, al nuovo eletto Basilio, consacrato dal patriarca di Costantinopoli Cosmas I (1075-1081), non venne consentito di prendere possesso della propria sede, sulla quale Roberto il Guiscardo avevano insediato un titolare latino, Arnulfo[31]. Un tale provvedimento non comportava, è vero, la latinizzazione delle istituzioni e della liturgia, e tanto meno del tessuto ecclesiale, ma come vera e propria premessa avrebbe comunque innescato un processo, lento ma inesorabile, che in tempi più o meno lunghi avrebbe portato al medesimo risultato. Più autori hanno sottolineato la disponibilità papale e normanna nei confronti della Chiesa greca in Italia[32], e la storia delle unioni parziali che nei secoli successivi la Chiesa di Roma avrebbe realizzato con varie Chiese dell’Oriente pre-efesino, pre-calcedonese e ortodosso, insegna che la latinizzazione non è mai stata il primo obiettivo in agenda. Ciò che veramente premeva era l’accordo di natura ecclesiologica e giuridica dove il rispetto di proprie consuetudini liturgiche e canoniche faceva parte del pacchetto di reciproche garanzie[33].

Ora, nel caso delle diocesi bizantine del Meridione se non si può parlare di “unione” con Roma nel senso post-tridentino e moderno del termine, è pur vero che una sorta di unione ci fu. La restituzione alla giurisdizione papale comportava infatti un passaggio di chiese locali, ormai da tre secoli non più latine, dal patriarcato di Costantinopoli alla giurisdizione di Roma. Il vero problema non era dunque, come è stato scritto, il riconoscimento da parte dei vescovi greci d’Italia del primato romano a scapito di un primato costantinopolitano[34]. Occorre invece sottolineare che nella seconda metà dell’XI secolo il papato riottenne gli stessi territori alienati nel secolo VIII, ma non le stesse chiese locali, che nel frattempo da latine erano divenute bizantine[35], e sulle relazioni tra le Chiese gravavano ormai l’ipoteca delle crisi con Fozio (858-897) e degli incidenti del 1054[36]. Dopo la conquista normanna i vescovi griki d’Italia si vennero a trovare in una situazione inedita: “la Chiesa dalla quale dipendevano territorialmente per giurisdizione non era in co­munione con la Chiesa che aveva dato loro il resto della facies eccle­siale”[37], in una parola la loro identità religiosa.

Dopo il XIII secolo le relazioni con Costantinopoli divennero difficili e sempre più rare e la tradizione liturgica esposta all’influenza del rito romano. Il sinodo di Melfi del 1284 rese obbligatoria per le Chiese italo-bizantine l’adozione del Filioque nella professione di fede[38]. Con lettere del 3 giugno e 11 agosto 1370 papa Urbano V incaricò Giacomo d’Itri di visitare chiese e monasteri per correggere gli “errori” dei loro libri liturgici, in particolare nella preghiera eucaristica[39]. Nel confermare il 21 aprile 1371 le disposizioni del predecessore, papa Gregorio XI parla di “alcune parole aggiunte” al testo del Canone che generano una interpretazione erronea ed eretica e che vanno immediatamente cassate[40]. I presunti “errori” individuati erano la supplica epicletica per la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo che nelle anafore orientali viene dopo il racconto dell’istituzione dell’eucaristia e, probabilmente, la preghiera di intercessione per la quale il sacrificio eucaristico veniva offerto a vantaggio (e non soltanto in onore) della Madre di Dio e dei santi[41].

Qualche decennio anni prima, nel 1334, Raimond de Gramat († 1340), vescovo di Montecassino, conte di Campagna e vicario di pa­pa Giovanni XXII, aveva rimesso all’arcivescovo Pietro di Reggio Calabria una lettera destinata ai suoi suffraganei greci, vescovi di Gerace, Oppido e Bova, con la quale proibiva a tutto il loro clero la celebrazione in rito bizantino “a meno che non fosse disposto a sacrificare con l’azzimo e radersi la barba”[42]. L’energica reazione degli interessati fece rientrate il provvedimento[43], ma ormai era soltanto questione di tempo, dal momento che lo stesso vescovo Ioannikios di Gerace aveva commissionato ed usava un eucologio dove le ordinazioni, la consacrazione del crisma e degli olii sacri sono tradotti in greco dal rito romano[44].

Concluso il Concilio di Firenze nel 1439 vediamo le superstiti sedi episcopali bizantine d’Italia passare tutte al rito romano: Rossano nel 1460, Gerace nel 1482, Gallipoli nel 1513 e Bova nel 1573. A Gerace il passaggio della cattedrale al rito romano venne autorizzato dal vescovo Athanasios, già monaco ortodosso di Vatopedi sul Monte Athos (!). Comunque, come già alla fine dell’XI secolo, con l’occupazione normanna, il passaggio della cattedrale al rito romano non pregiudicava nei villaggi la continuità di una vita parrocchiale secondo il rito bizantino fino a tutto il XVI secolo e, in alcuni casi, anche parte del XVIII. Il caso emblematico di Athanasios di Gerace è utile per ricordare che non sempre le alterazioni in senso occidentale del rito liturgico o la sua soppressione furono il risultato di una pressione da parte di Roma o dell’episcopato latino.

Nella seconda metà del XIII secolo il salentino Teodoro di Cursi († post 1269) scriveva un violento libello contro l’arcivescovo Angelo di Rossano (eletto nel 1266) per le innovazioni arbitrariamente introdotte nella Divina Liturgia[45]. Egli aveva soppresso le tre antifone iniziali, litania e preghiera per i catecumeni e la prima serie delle petizioni, aveva anche semplificato l’invocazione iniziale delle litanie e lo stesso inno Trisàghion e trasferito la preparazione del pane e del vino dalla posizione tradizionale a dopo la lettura del Vangelo, una ovvia imitazione dell’offertorium romano[46].

 

4. La continuità e la fine: il rito italo-bizantino nei monasteri

 

Nonostante l’uso curiale e medievale, passato a volte anche negli studi, di denominare “basiliano” il monachesimo bizantino, in Italia meridionale come a Costantinopoli non sono mai esistiti riferimenti esclusivi al magistero di questo o di quel legislatore mo­nastico e neanche, se vogliamo, agli insegnamenti del fondatore del singolo monastero. Egli, come qualsiasi monaco, non inventava nulla di nuovo ma ribadiva all’occorrenza l’autorità “di tutti i padri” del monachesimo. Dunque non abbiamo a che fare con un “ordine” ed una “regola”, ma secondo la felice definizione di Robert Taft “si tratta più di qualcosa che un religioso occidentale chiamerebbe differenti ‘stili di vita’, derivati dalle vite e dai precetti dei Padri”[47].

Nel mutato quadro politico determinato dall’occupazione norman­na del Meridione d’Italia, il monachesimo italo-greco evolveva verso forme stabilmente cenobite, favorite e protette dai nuovi ceti dirigenti[48]. La riforma, che ha il suo epicentro a Rossano nel monastero della “Nuova Hodigitria” fondato (o rifondato) nel 1101/1102 da s. Bartolomeo di Simeri, detto il Patìr (Padre)[49], da dove proviene il primo e più antico Typikòn italo-greco, tràdito dal codice Jena Thüringer Universi­tät, G.B.q.6 del 1152/1182[50]. Il Typikòn è il libro dove vengono previsti tutti i casi di occorrenza e concorrenza tra ciclo mobile e fisso dell’anno liturgico, quindi è un libro che in monastero regolava e regola l’uso di altri libri. La distinzione tra liturgia “di cattedrale” e liturgia “monastica” elaborata negli anni ‘20 del secolo scorso da Anton Baumstark resta infatti una chiave ermeneutica irrinunciabile per l’analisi dei riti cristiani[51].

Il Typikòn liturgico del monastero rossanese venne adottato da altri cenobi italo-greci del Meridione, ma non bisogna dimenticare che per tutto il Medioevo quella della liturgia è stata una soprattutto una storia di riti locali[52], quindi accanto a quella del Patìr di Rossano esistevano altre tradizioni codificate in un proprio Typikòn: quella del Santissimo Salvatore di Messina attorno al 1165 e quella del monastero di S. Nicola di Ca­sole presso Otranto nel 1173[53].

Il monastero di Grottaferrata alle porte di Roma rielaborò nel 1299/1300 la tradizione di Rossano accogliendo alcune pratiche occidentali come la festa di Tutti i Santi e la Commemorazione dei defunti il 1° e 2 novembre, la soppressione di alcuni giorni aliturgici, l’introduzione delle “ottave” e la celebrazione privata dell’eucaristia per poi accogliere nel XIV secolo la solennità del Corpo e Sangue di Cristo. Sebbene nel panorama del monachesimo italo-greco quello di Grottaferrata non godesse di particolare prestigio, la tradizione locale che dal 1300 attribuiva la redazione del proprio Typikòn al confondatore s. Bartolomeo († ca. 1050), ebbe buon gioco nei secoli a venire. Quando nel 1579 papa Gregorio XIII riunì tutti i monasteri bizantini d’Italia in un Ordine posto sotto il nome di s. Basilio (329-379)[54], la tradizione codificata nel Typikòn di Grottaferrata, ritenuta (a torto) opera di un santo e più antica delle altre, venne estesa a tutta la Congregazione. In questo modo si applicava alla liturgia monastica italo-greca il contemporaneo criterio tridentino dell’uniformità liturgica[55].

Naturalmente la variante monastica del rito italo-bizantino aveva conosciuto gli stessi fenomeni di deterioramento rilevati nel suo ramo non monastico, con l’aggravante di aver optato per l’adozione delle ostie azzime a posto del pane fermentato e per l’uso delle vesti liturgiche romane. Anche l’impianto architettonico, l’arredo e la disposizione liturgica delle chiese non rispondeva più alle norme e allo spirito dell’antica liturgia italo-greca[56]. Gli stessi vertici dell’Or­dine Basiliano manifestavano ormai insofferenza anche per le poche ca­ratteristiche “orientali” superstiti del loro istituto, chiedendo alla Santa Sede nel 1709 e nel 1746 l’abolizione del rito italo-greco[57], che alla fine giunse, ma per altra via. Il terremoto del 5 febbraio 1783 e le successive soppressioni del 1784, 1794, 1808 e 1809 portarono alla definitiva cancellazione del monachesimo bizantino in Calabria[58] e con l’annessione all’Italia del Regno di Napoli analoghi provvedimenti eversivi vennero estesi alla Sicilia nel 1886[59].

 

5. Un revival missionario: il monastero di Grottaferrata

 

Dopo l’unità d’Italia il rito-bizantino, o meglio, quel che ne restava, era osservato soltanto nel monastero di Grottaferrata, dichiarato Monumento nazionale, superando in questo modo la soppressione decretata nel 1873. Qualche anno prima papa Pio IX si era interessato alla tradizione liturgica vigente nel cenobio, facendo prevedere un’azione di riforma che la difficoltà dei tempi e l’opposizione da parte dei monaci non permisero di concretizzare.

Soltanto il 14 aprile 1881 a seguito di un laborioso e faticoso iter, la Sezione per gli “Affari di Rito Orientale” della Congregazione De Propaganda Fide, ingiungeva alla comunità monastica di riprendere l’osservanza integrale del rito bizantino, venuta meno già alla fine del Medioevo[60]. Dietro il provvedimento c’era il progetto, concertato dalla stessa Propaganda, di mettere i monaci di Grottaferrata a servizio dell’apostolato unionista promosso da Leone XIII[61]. Si prospettava infatti la fondazione, mai realizzata, nel cuore stesso dell’Oriente cristiano di centri monastici missionari per guadagnare al cattolicesimo di rito bizantino la locale popolazione ortodossa[62]. Così la riforma voluta dall’anziano papa di Carpineto non aveva come oggetto la tradizione liturgica di Grottaferrata e non traeva origine da una esigenza maturata in seno alla comunità in seguito ad una più profonda riforma spirituale, e con tali premesse non sarebbe andata molto lontano.

Vista la destinazione “missionaria” della riforma, la Plenaria della Congregazione scartò la possibilità di riformare la Liturgia eucaristica italo-greca imponendo il rito oggi in uso nelle Chiese ortodosse e greco-cattoliche. Con questa scelta, come ha scritto p. Marco Petta, ieromonaco di Grottaferrata, “si produsse … un nuovo ibridismo, non più tra rito bizantino e rito latino, ma tra due recensioni dello stesso rito bizantino. E il ‘bisticcio’ … dura fino ad oggi”[63]: Liturgia delle ore secondo il rito italo-greco e Liturgia dell’eucarestia secondo il rito bizantino comune, ma con letture ed inni secondo le prescrizioni del Typikòn del monastero. Ma le traversìe non erano finite. Negli anni ‘20 del secolo scorso p. Nilo Borgia, anche egli ieromonaco di Grottaferrata, si mise alla ricerca di un rito più antico di quel­lo codificato nel Typikòn trecentesco, e non possedendo vera cognizione delle tradi­zioni testuali della tradizione liturgica italo-greca, trasferì nella pratica liturgica del monastero usi in vigore nel XIII secolo nel monastero di s. Melezio di Mioupolis in Beozia[64]. Lo stesso principio venne applicato nella riforma e ristampa dell’Horologion (Libro d’Ore) pubblicato nel 1950 con l’approvazione della Congregazione per le Chiese Orientali[65].

Buona parte dei problemi suscitati da queste riforme improvvisate sono stati risolti da una commissione liturgica che si è riunita, con cadenza anche bisettimale, dal dicembre 1994 al dicembre 1999.

 

6. Per finire, un problema ecclesiologico

 

Il progetto missionario di Leone XIII permise l’incontro della comunità monastica di Grottaferrata con le parrocchie italo-albanesi di Calabria e di Sicilia[66] che all’epoca ancora non erano state organizzate in eparchie (diocesi) autonome. Gli Italo-albanesi o Arbëresh sono i discendenti dei cristiani ortodossi emigrati a più riprese in Italia meridionale e lungo la costa adriatica tra l’ultimo quarto del XV secolo fino al 1744. In quanto fedeli del patriarcato di Costantinopoli, gli Italo-albanesi seguivano il Typikòn detto di s. Saba, rappresentante del ramo orientale del rito bizantino e diverso da quello italo-greco[67]. Inoltre pur essendo giunti in luoghi e regioni già storicamente italo-greche o dove si registrava ancora la presenza del monachesimo “basiliano”, non è possibile parlare di continuità tra le due esperienze religiose[68].

L’ingresso a Grottaferrata di candidati italo-albanesi, per la precisione negli anni 1883-1901 e 1918-1966 ha suggerito nel 1972 l’attribuzione del monastero da parte dell’Annuario Pontificio alla realtà e alla Chiesa italo-albanese. Lo stesso Annuario registra tra le tradizioni liturgiche vigenti un “rito italo-albanese”[69], ma non un rito “italo-bizantino” o “italo-greco”, nonostante che a Grottaferrata venga quotidianamente celebrato con libri approvati dalla competente autorità ecclesiale o siano in uso in forza di una tradizione manoscritta quasi millenaria. Il problema non è soltanto liturgico ma anche ecclesiale: il 26 settembre 1937 il monastero di Grottaferrata è stato eretto in Esarcato con territorio e giurisdizione propria (l’odierna Abbazia Territoriale del Diritto Occidentale) e messo alle dirette dipendenze della Sede Apostolica. Le richieste della Comunità, formulate nel 2004 presso la Segreteria di Stato in occasione del millenario di fondazione di vedere il proprio rito menzionato sulle pagine dell’Annuario Pontificio come espressione del patrimonio peculiare di una Chiesa monastica eretta come tale dalla Sede Apostolica nel 1937, sono rimaste ad oggi inascoltate[70]. Ancora un rito dimenticato.



[1] M. Smyth, La Liturgie oubliée. La prière eucharistique en Gaule antique et dans l’Occident non romain. Préface par M. Metzger, 
Postface par M. Dels Sants Gros I Pujol, Paris 2003; dello stesso autore si veda ora “Ante altaria”. Les rites antiques de la messe dominicale en Gaule, en Espagne et en Italie du Nord (Liturgie, 16), Paris 2007. Sono grato all’amico Dr. Stephan J. Koster per la segnalazione di ambedue le opere.

[2] A. Baumstark, Liturgie comparée. Principes et méthodes pour l’étude historique des liturgies chrétiennes. Troisième édition revue par Dom B. Botte O.S.B., Chevetogne - Paris 1953,

[3] R. F. Taft, Anton Baumstark’s Comparative Liturgy Revisited, in Acts of the International Congress Comparative Liturgy Fifty Years after Anton Baumstark (1872-1948), Rome 25-29 September 1998, edd. R. F. Taft - G. Winkler (Orientalia Christiana Analecta 265), Roma 2001, 200, 206-208.

[4] Una sintesi in S. Verhelst, The Liturgy of Jerusalem in the Byzantine Period, in Christians and Christianity in the Holy Land: From the Origins to the Latin Kingdoms, by O. Limor and G. G. Stroumsa, Turnhout 2006, 421-459

[5] Cfr. A. Bugnini, La Riforma Liturgica (1948-1975). Nuova edizione riveduta e arricchita di note e di supplementi per una lettura analitica (Bibliotheca Ephemerides Liturgicae, Subsidia 30), Roma 1997, 563-564 per i riti domenicano, carmelitano, cistercense, lionese e mozarabico e per la sopressione del rito bracarense.

[6] Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, can. 28 §2.

[7] P. es. Annuario Pontificio per l’anno 2007, 1871.

[8] Ibid., 1167.

[9] Ibid., 1169-1070.

[10] Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, can. 28 §1.

[11] Ibid., can. 32: “Nessuno può passare validamente a un’altra Chiesa sui iuris senza il consenso della Sede Apostolica”; cfr. Codice di Diritto Canonico, can. 112 - §1: “Dopo aver ricevuto il battesimo, sono ascritti a un’altra Chiesa rituale di diritto proprio: chi ne abbia ottenuto la licenza da parte della Sede Apostolica…”.

[12] V. Peri, La Congregazione dei Greci (1573) e i suoi primi documenti, in Miscellanea Stephan Kuttner, III (= Studia Gratiana 13 [1967]), 129-256.

[13] V. Peri, L’«incredibile risguardo» e «l’incredibile destrezza». La resistenza di Venezia alle iniziative postridentine della Santa Sede per i Greci dei suoi domini, in Venezia centro di mediazione tra Oriente e Occidente (secoli XV-XVI). Aspetti e problemi, Firenze 1977, 599-625; I metropoliti orientali di Agrigento. La loro giurisdizione in Italia nel XVI secolo, in Bisanzio e l’Italia. Raccolta di studi in memoria di Agostino Pertusi, Milano 1982, 274-321.

[14] E. Morini, Vescovo ortodosso in terra latina. Profilo istituzionale di Gabriele Seviros nell’intreccio di relazioni tra Costantinopoli, Venezia e Roma, in Gavriil Seviros, arcivescovo di Filadelfia a Venezia e la sua epoca. Atti della Gornata di studio dedicata alla memoria di Manussos Manussacas (Venezia, 26 settembre 2003), a cura di D. G. Apostolopulos (Istituto Ellenico di Studi Bizantini e Postbizantini di Venezia, Convegni 9), Venezia 2004, 21-44.

[15] V. Peri, Chiesa latina e Chiesa greca nell’Italia postridentina (1564-1596), in La Chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo. Atti del Convegno Storico Interecclesiale (Bari, 30 apr. - 4 magg. 1969), I (Italia Sacra 20), Padova 1973, 271-469.

[16] V. Peri, Chiesa Romana e «rito» greco. G. A. Santoro e la Congregazione dei Greci (1566-1596)(Testi e Ricerche di Scienze Religiose 9), Brescia 1975.

[17] Orientalium Ecclesiarum, 2; cfr. I. Žužek, Che cosa è una Chiesa, un Rito Orientale?, Seminarium 27 (1975), 263-277.

[18] E. Bishop, "The Genius of the Roman Rite" in "Essays on Ceremonial", edited by Vernon Staley, London, 1904, pp. 283-307. P. Sherwood, The Sense of Rite, Eastern Churches Quarterly 12 (1957-1958), 112-125.

[19] Il fenomeno e le cause che lo hanno determinato sono studiate da V. Peri, Considerazioni sull’Uniatismo, Oriente Cristiano 31/4 (1991), 13-42; La genesi storica dell’Uniatismo, ibid., 37/3 (1997), 3-29; Dall’esaurimento dell’uniatismo alla Santa Unione tra Chiese Sorelle. Considerazioni sulla Chiesa di Dio che è in Ukraina (Quaderni di Oriente Cristiano - Studi 7 = Oriente Cristiano 35/3-4), Palermo 1998.

[20] “Uniate” suona alle orecchie di un cattolico orientale come “papista” alle orecchie di un cattolico occidentale; tuttavia la Chiesa orientale cattolica di Bulgaria accetta di riferire a sé stessa l’aggettivo “uniate” anche nel titolo di pubblicazioni che la riguardano direttamente.

[21] Non esistono studi complessivi sulla latinizzazione liturgica delle Chiese orientali cattoliche, per la Chiesa ucraina si può consultare L. D. Huculak, The Divine Liturgy of St. John Chrysostom in the Kievan Metropolitan Province During the Period of Union with Rome (1596-1839), Dissertatio ad Lauream, Pontificio Istituto Orientale, Roma 1990.

[22] Ed. Codex Iuris Canonici. Fontes, cura Em.i Petri Card. Gasparri editi, II: Romani Pontifices. 1746-1865, Roma 1924, 102-109. G. L. Hoffmann, “De Benedicti XIV latinisationibus in Const. «Etsi pastoralis» et «Inter multa»”, Ephemerides Iuris Canonici 4 (1948), 9-54; vd. anche J. Krajcar, “Benedetto XIV e l’Oriente Cristiano”, in Benedetto XIV (Prospero Lambertini). Convegno internazionale di studi storici, Cento 6-9 dicembre 1979, I, Cento 1981, 493-507: 495-496.

[23] Orientalium Ecclesiarum, 6.

[24] Congregazione per le Chiese Orientali, Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, Città del Vaticano 1996. Con scarso spirito ecclesiale, alcuni episcopati che non condividono i contenuti e l’orientamento dell’Istruzione, sono giunti ad ostacolarne, o anche ad impedirne, la traduzione.

[25] M. V. Anastos, The Transfer of Illyricum, Calabria and Sicily to the Jurisdiction of the Patriarchate of Constantinople in 732-33, in Silloge Bizantina in onore di Silvio Giuseppe Mercati = Studi Bizantini e Neoellenici 9, Roma 1957, 14-31.

[26] Si rimanda alla sintesi di J.-M. Martin e A. Jacob, La Chiesa greca in Italia (c. 650 - c. 1050), in Storia del Cristianesimo. Religione - Politica - Cultura, IV: Vescovi, Monaci e Imperatori (610-1054), Roma 1999, 367-388, e inoltre: J.-M. Martin, Hellénisme et présence byzantine en Italie méridionale (VIIIe-XIIIe siècle, in L’Ellenismo Italiota dal VII al XII secolo. Alla memoria di Nikos Panagiotakis, Atene 2001, 181-202.

[27] Cfr. L. Perria, V. von Falkenhausen e F. D’Aiuto nell’Introduzione al volume Tra Oriente e Occidente. Scritture e libri greci fra le regioni orientali di Bisanzio e l’Italia, a cura di L. Perria (Testi e Studi Bizantino-Neoellenici 14), Roma 2003, IX-XXXVIII: XI-XIX.

[28] S. Parenti - E. Velkovska, L’eucologio Barberini gr. 336. Seconda edizione riveduta con tra­duzione in lingua italiana (Bibliotheca Ephemerides Liturgicae, Subsidia 80), Roma 2000.

[29] S. Parenti, Nota sul Salterio-Horologion del IX secolo Torino, Biblioteca Universitaria B. VII. 30”, Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata, III s. 4 (2007), 275-287.

[30] D. Girgensohn, Dall’episcopato greco all’episcopato latino nell’Italia meri­dionale, in La Chiesa greca in Italia, I, 25-45; N. Kamp, Vescovi e diocesi dell’Italia meridionale nel passaggio dalla dominazione bizantina allo Stato normanno, in G. Rossetti (a cura di), Forme di potere e struttura sociale in Ita­lia nel Medioevo, Bologna 1977, 379-397; Id., The Bishops of Southern Italy in the Norman and Staufen Periods, in G. A. Loud and A. Metcalfe, The Society of Norman Italy (The Medieval Mediterranean 38), Leiden-Boston-Koeln 2002, 185-251.

[31] D. Stiernon, Basile de Reggio, le dernier metropolite grec de Calabre, Rivista di Storia della Chiesa in Italia 18 (1964), 189-226, 189-226.

[32] Ibid., 201; P. Herde, Il Papato e la Chiesa Greca nell’Italia meridionale dall’XI al XIII secolo, in La Chiesa Greca in Italia, I, 213-255. 222; Id., The Papacy and the Greek Church in Southern Italy between the Eleventh and the Thirteenth Century, in The Society of Norman Italy, 213-251, versione aggiornata dell’articolo Das Papst­tum und die griechische Kirche in Süditalien vom 11. bis zum 13. Jahrhundert, Deu­tsches Archivs für Erforschung des Mittelalters 26 (1970), 1-46.

[33] E. Morini, L’identità delle Chiese Orientali Cattoliche: prospettive storiche, in Congregazione per le Chiese Orientali, L’Identità delle Chiese Orientali Cattoliche. Atti dell’Incontro di studio dei Vescovi e dei Superiori Maggiori del­le Chiese Orientali Cattoliche d’Europa. Nyíregyháza (Ungheria), 30 giugno - 6 luglio 1997, Città del Vaticano, 1999, 35-70: 39-53.

[34] Cfr. V. von Falken­hausen, L’Archimandritato del S. Salvatore in lingua phari di Messi­na e il monachesimo italo-greco nel regno normanno svevo (secoli XI-XIII), in Messina: il ritorno della memoria. Catalogo della Mostra delle pergamene conservate nell’Archivo Ge­neral de la Fundación Casa Ducal de Medinaceli, Messina 1° marzo - 28 aprile 1994, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repub­blica On. Luigi Scalfaro e di S. M. il Re di Spagna Don Juan Carlos I, Palermo 1994., 41-52: 42. La studiosa parla impropriamente del riconoscimento della “supremazia del pontefice romano”, mostrando di igno­rare il diverso valore teologico e giuridico annesso ai concetti di “primato” e “giurisdizione”.

[35] V. Peri, La liturgia come voce e «theatron» della comunione tra le chiese, in Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, Liturgie del­l’Oriente Cristiano a Roma nell’Anno Mariano 1987-88. Testi e Studi, Città del Vaticano 1990, 755-806, qui 788; cfr. V. Grumel, Les Régestes des Actes du Patriarchat de Constantinople, I: Les Actes des Patriarches. Les Régestes de 715 à 1206. Deuxième édition revue et corrigée par J. Darrouzès (Le Patriarchat Byzantin 1), Paris 1989, 303-304, n° 792.

[36] Si leggano in proposito le riflessioni di E. Chrysos, 1054: Schism?, in Cristianità d’Occidente e d’Oriente, in Cristianità d’Occidente e Cristianità d’Oriente (secoli VI-XI), I (Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo 51), Spoleto 2004I, 547-571.

[37] Peri, La liturgia come voce e «theatron» [cfr. sopra, nota 35], 799.

[38] P. Herde, Die Legation des Kardinalbischofs Gerhard von Sabina während des Krieges der Sizilischen Vesper und die Synode von Melfi (28. März 1284), Rivista di Storia della Chiesa in Italia 21 (1967), 1-53: 46-47.

[39] Acta Urbani PP. V (1362-1370) e regestis Vaticanis aliisque fontibus collegit A. L Tăutu (Pontificia Commissio ad Redigendum Codicem Iuris Ca­nonici Orientalis, Fontes, Se­ries III/XI), Città del Vaticano 1964, 331, 350.

[40] Acta Gregorii PP. XI (1370-1378) e regestis Vaticanis aliisque fontibus collegit notisque ador­navit A. L Tăutu (Pontificia Commissio…, Fontes, Series III/XII), Roma 1966, 11, 62-64, dove per errore si legge 1272, cfr. anche 63 e 91-93.

[41] Ibid., 63, 91-93; ulteriori approfondimenti in S. Parenti, Santi, Santità e Liturgia nell’opera di Robert Taft, in Saints - Sanctity - Liturgy. For Robert Francis Taft, S.J., at Seventy. January 9, 2002. Symposium Papers and Memorabilia, edited by Mark M. Morozowich, Fairfax, VA, 2006, 51-60.

[42] G. Garitte, Deux manuscrits italo-grecs (Vat. gr. 1238 et Barber. gr. 475): II Une tentative de suppression du rite grec en Calabre en 1334, in Miscellanea Giovanni Mercati, III, 31-60.

[43] Ibid., 37.

[44] Sull’eucologio vd. la scheda di M. T. Rodriquez in Codici greci dell’Italia meridio­nale, a cura di P. Canart e S. Lucà, Roma 2000, 136.

[45] G. Mercati, Non Russia, ma Rossano nell’Antirretico di Teodoro Cursiota, Bessarione 38 (1925), 136 = Id., Opere minori IV (Studi e Testi 79), 169-171 (da cui ci­to); su Teodoro vd. anche A. Acconcia-Longo - A. Jacob, Une anthologie salen­tine du XIVe siècle: Le Vaticanus Gr. 1267, Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici 17-19 (1980-1982), 164; A. Acconcia Longo, Un nuovo codice di poesie salentine (Laur. 58,25) e l’assedio di Gallipoli del 1268-69, ibid. 20-21 (1983-1984), 133-137.

[46] Mercati, Non Russia, ma Rossano, 170-171.

[47] R. F. Taft, Un pellegrinaggio alle origini della vita religiosa: i Padri del de­serto oggi, in Id., A partire dalla Liturgia. Perché è la Liturgia che fa la Chiesa, Roma 2004, 386-421: 400, traduzione italiana di Id., A Pilgrimage to the Origins of the Religious Life. The Fathers of Desert Today, The American Bene­dictine Review 36 (1985), 113-142: 125.

[48] E. Morini, Il monachesimo italo-greco e l’in­fluenza di Stoudios, in L’Ellenismo Italiota dal VII al XII secolo [sopra, nota 27], 125-151: 126.

[49] F. Burgarella, Aspetti storici del Bios di san Bartolomeo da Simeri, in Eukosmia. Studi miscellanei per il 75° di Vincenzo Poggi S. J., a cura di V. Ruggieri e L. Pieralli, Soveria Mannelli 2003, 119-133: 119, 120-121.

[50] Per la datazione seguo A. von Stockhausen, Katalog der griechischen Hand­schriften im besitz der Thüringer Universitätas- und Landesbibliothek Jena, Byzantinische Zeitschrift 94/2 (2001), 684-701: 695.

[51] A. Baumstark, Vom geschichtlichen Werden der Liturgie, Freiburg/B. 1923 (Ecclesia orans, 10), 64-70; id. Liturgie comparée [sopra, nota 2], 123-132. Di recente l’argomento è stato ripreso e ulteriormente puntualizzato da R. F. Taft, Cathedral vs. Monastic Liturgy in the Christian East: Vindicating a Distinction, Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata, IIIs 2 (2005), 173-219.

[52] Baumstark, Liturgie comparée [sopra, nota 2], 18-22.

[53] S. Parenti, Il Monastero di Grottaferrata nel Medioevo. Segni e percorsi di una identità (Orientalia Christiana Analecta 274), Roma 2005, cap VIII.

[54] V. Peri, Documenti e appunti sulla riforma postridentina dei monaci basiliani, Aevum 51 (1977), 411-478.

[55] S. Parenti, Id., Osservanza liturgica e vita mona­stica a Grottaferrata nell’ultimo quarto del ‘500, in S. Parenti - E. Vel­kovska, Mille anni di “rito greco” alle porte di Roma. Raccolta di saggi sulla tradizione liturgica del Monastero italo-bizantino di Grottaferrata (Analekta Kryptopherres 4), Grottaferrata 2004, 203-251.

[56] S. Parenti, “Il “Messale” Messina gr. 107 e il “Calendario siciliano in caratteri greci”, Studi sull’Oriente Cristiano 12 (2008), 93-113.

[57] Breve ragguaglio istorico per altrui disinganno sul Rito Greco rispetto a’ Mo­naci Basiliani d’Italia, in Roma 1746; G. M. Croce, La Badia Greca di Grottaferrata e la rivista “Roma e l’Oriente”. Cattolicesimo ed Ortodossia fra unionismo ed ecumenismo (1799-1923). Con appendice di documenti inediti, I (Storia e attualità XIII/1), Città del Vaticano 1990, 13-17.

[58] Statistiche e bibliografia in ibid., 347-351.

[59] La storia, pressoché inedita della soppressione dei monasteri siciliani, è trattata in ibid., I, 51-105.

[60] S. Parenti, Il Monastero di Grottaferrata nel Medioevo. Segni e percorsi di una identità (Orientalia Christiana Analecta 274), Roma 2005, 273-319.

[61] Croce, La Badia Greca di Grottaferrata [sopra, nota 55], 107-253.

[62] Ibid., I, 298-305.

[63] M. Petta, Attività liturgica di Giuseppe II Cozza-Luzi, in L’Abate Giuseppe Cozza-Luzi archeologo, liturgista, filologo. Atti della Giornata di Studio, Bolsena 6 maggio 1995, a cura di S. Parenti e E. Velkovska (Analekta Kryptopherres 1), Grottaferrata 1998, 173-184.

[64] S. Parenti, L’Euchologion to mikron del 1931 e la riforma della Liturgia delle Ore a Grottaferrata. Tentativi del passato, situazione attuale e nuove proposte, Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata, n.s. 46 (1992), 281-318, ristampato con integrazioni in Parenti - Velkovska, Mille an­ni di “rito greco” [sopra, nota 55], 267-299.

[65] Una ricostruzione sulle fonti più genuine della preghiera oraria del monastero è proposta in traduzione italiana da chi scrive: S. Parenti, Liturgia delle Ore Italo-bizantina (Rito di Grottaferrata). Introduzione e traduzione (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica, 12), Città del Vaticano 2001.

[66] La complessa problematica è analizzata in S. Parenti, Il Monastero Esarchico di Grottaferrata e la Chiesa italo-albanese, in Apollinaris 73 (2000) [pubblicato nel 2001], 629-662, ristampato con aggiunte in in Parenti - Velkovska, Mille an­ni di “rito greco” [sopra, nota 55], 325-365.

[67] Ho trattato il tema nello studio: S. Parenti, Anno liturgico come locus ideologico. Commentando una recente proposta del Sinodo di Lungro, Rivista Liturgica 87 (2000), 305-325.

[68] V. Peri, “Si dissiru li missi a Patarriti”. Sulla persistenza della tradizione ecclesiale bizantina in Calabria, in Chiesa e Società nel Mezzogiorno. Studi in onore di Maria Mariotti, I, Soveria Mannelli 1998, 195-224: 215; S. Caruso, Politica “gregoriana”, latinizzazione della religiosità bizantina in Italia meridionale, isole di resistenza greca nel Mezzogiorno d’Italia tra XI e XII secolo, in Cristianità d’Occidente e Cristianità d’Oriente (secoli VI-XI)(Settimane di studio della Fondazione Centro Italiano di studi sull’Alto Medievo 51), Spoleto 2004, 462-545: 543-544.

[69] Annuario Pontificio per l’anno 2007, 1167 e 1170

[70] N. Cuccia, Il rito liturgico, in San Nilo. Il Monastero italo-bizantino di Grottaferrata. 1004-2004: mille anni di storia, spiritualità e cultura, a cura dell’Archimandrita P. E. Fabbricatore e della Comunità Monastica, Roma 2005, 221-233: 227-228. Interessanti osservazioni sul prospetto delle Chiese orientali nell’Annuario Pontificio si leggono presso C. Vasil, Etnicità delle Chiese sui iuris e l’Annuario Pontificio, in Istituto di Diritto Canonico San Pio X, Le Chiese sui iuris. Criteri di individuazione e delimitazione. Atti del Convegno di Studio svolto a Košice (Slovacchia), 6-7. 03. 2004 a cura di L. Okulik, Venezia 2005, 97-108.