Quell’ecumenismo del sangue

martiri-2di MANUEL NIN

«Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio...» ( Isaia, 40, 1). Quasi a riecheggiare le parole del profeta e a completarle con quelle dell’apostolo Paolo che chiama in causa il «Padre del Signore nostro Gesù Cristo... Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazioneà» ( 2 Corinzi, 1, 3), Papa Francesco, alle porte del Natale 2014 indirizza una lettera ai cristiani che vivono nelle regioni del Medio oriente. Cristiani che da anni, ma specialmente negli ultimi mesi vivono in una situazione di sofferenza, di esilio, di persecuzione, fino alla massima testimonianza, quella di versare il sangue per Cristo.
Cristiani che versano il proprio sangue, la propria storia, la propria cultura cristiana in quelle terre del Medio oriente, terre che sono le loro terre da quasi duemila anni. Papa Francesco, in modo lucido, coraggioso e allo stesso tempo paterno, si avvicina alla realtà sofferente di quelle terre e di quegli uomini e donne, che dovranno vivere ancora un Natale nella sofferenza e nella persecuzione, purtroppo tante volte ancora ignorata nell’i n d i f f e re n z a dall’Occidente. Francesco comunque annuncia il mistero della consolazione di Dio verso il suo popolo nella nascita del Figlio. E senza mezzi termini né imprecise allusioni, fa riferimento al regime di terrore di portata mai immaginata prima, che si è istallato in quelle terre cristiane popolate lungo i secoli da tanti padri, monaci, cristiani che le avevano coltivate, curate e amate fino all’e s t re m o . Francesco fa riferimento di seguito alle realtà etniche e religiose non soltanto cristiane che vivono in quelle terre e che sono oggetto di persecuzioni e di atrocità umanamente senza paragone. E la voce del vescovo di Roma si alza per difendere quelli che sono i più deboli di fronte alla sofferenza e per chiedere la solidarietà di tutti verso quelle popolazioni con delle iniziative che portino a quei nostri fratelli la consolazione, il supporto, la libertà di agire, di vivere per quello che sono. Un paragrafo centrale della lettera diventa il nocciolo di tutto il messaggio, della parola veramente teologica del Papa, cioè quasi la professione di fede di quello che è il fondamento della vita e della testimonianza cristiana: la fedeltà totale e unica a Cristo, e fino al martirio. I cristiani in Oriente e dovunque, lungo la storia dal I al XX secolo, fino ai nostri giorni del XXI secolo, non hanno sofferto e non soffrono una persecuzione sanguinante a causa di eventuali rivoluzioni o di capovolgimenti sociopolitici, bensì a causa del nome e della persona di Gesù Cristo. La testimonianza dei martiri: è a Gesù Cristo che viene resa, lui è la loro e la nostra speranza; uniti fedelmente e unicamente a Lui. Il martirio è anche esigenza per gli stessi cristiani di una vita cristiana più profonda, più fraterna e più autentica. E Francesco si ricorda dei fedeli delle diverse Chiese cristiane, vescovi, sacerdoti, uomini e donne, che hanno subito il martirio oppure sequestrati, messi a parte dalla memoria del mondo, quasi a farli cadere nell’oblio da tutto e da tutti. Viene introdotto quindi il tema dell’ecumenismo del sangue, quasi che il dialogo fraterno tra le diverse Chiese cristiane venisse in qualche modo coagulato dal sangue dei martiri. E il Papa si rallegra della collaborazione tra i pastori delle diverse Chiese Orientali cattoliche e ortodosse, e anche tra i fedeli. «Le sofferenze patite dai cristiani — scrive — portano un contributo inestimabile alla causa dell’unità. È l’ecumenismo del sangue, che richiede fiducioso abbandono all’azione dello Spirito Santo». E Francesco introduce un altro aspetto della drammatica vicenda, uno forse tra i più difficili da affrontare: il vincere la tentazione di fuggire, di emigrare, cioè l’esortazione del Papa a rimanere in quelle terre martoriate, devastate, ma che sono cristiane da duemila anni; rimanere lì, certo tra le rovine delle case, delle chiese, dei monasteri, ma fermi nella sp eranza. Una speranza e un coraggio richiesti malgrado le pietre fumanti ovunque, le icone bruciate, le ceneri delle biblioteche e dei manoscritti che tramandavano il canto di lode e di speranza dei santi Padri. Francesco ancora esorta al dialogo con tutti, nell’esigenza di una chiara condanna di una violenza ingiustificabile: «La situazione drammatica che vivono i nostri fratelli cristiani in Iraq, ma anche gli yazidi e gli appartenenti ad altre comunità religiose ed etniche, esige una presa di posizione chiara e coraggiosa da parte di tutti i responsabili religiosi, per condannare in modo unanime e senza alcuna ambiguità tali crimini e denunciare la pratica di invocare la religione per giustificarli». Nell’ultima parte della sua lettera, Francesco esorta i cristiani di quelle terre a evitare la tentazione del disinteresse verso un impegno nella vita pubblica, e a vivere come cristiani nello spirito delle Beatitudini evangeliche. Il Papa infine si trattiene a elencare tutti coloro che nella Chiesa si impegnano, senza fuggire, nel servizio della carità. E indirizzandosi ai giovani, li incoraggia a non avere paura, ripetendo le belle parole di Benedetto XVI nella sua esortazione apostolica sul Medio oriente (n. 63). A conclusione della lettera, e come nei suoi interventi precedenti, Francesco si indirizza anche alla comunità internazionale con una parola coraggiosa e di denuncia: «Ribadisco la più ferma deprecazione dei traffici di armi. Abbiamo piuttosto bisogno di progetti e iniziative di pace, per promuovere una soluzione globale ai problemi della Regione. Per quanto tempo — si domanda — dovrà soffrire ancora il Medio oriente per la mancanza di pace?». Nei giorni del Natale, tanti cristiani nel Medio oriente, con la lingua dei loro Padri, canteranno con Efrem il Siro, e noi con loro nella solidarietà, nel non oblio e la non indifferenza verso il loro martirio: «Benedetto il bimbo, che oggi ha fatto esultare Betlemme. Benedetto il bimbo, che oggi ha ringiovanito l’umanità. Benedetto il frutto, che ha chinato se stesso verso la nostra fame. Benedetto il buono che in un istante ha arricchito la nostra povertà...».

© Osservatore Romano - 28 dicembre 2014